In data 8 aprile 2022 la Corte Costituzionale ha emanato un comunicato con cui dichiara non fondato il dubbio di costituzionalità sollevato dal Tribunale di Reggio Calabria con riferimento alla natura della misura della “La quarantena obbligatoria e delle relative sanzioni penali”, che a detta della Consulta inciderebbero solo sulla “libertà di circolazione. Non comportano alcuna coercizione fisica, sono disposte in via generale per motivi di sanità e si rivolgono a una indistinta pluralità di persone, accomunate dall’essere positive al virus trasmissibile ad altri per via aerea”.
Il comunicato lascia seriamente perplessi, pur se bisognerà attendere il deposito delle motivazioni per comprendere appieno un’affermazione che, all’apparenza, parrebbe naturalisticamente impossibile prim’ancora che giuridicamente errata.
C’è da dire che la riconducibilità della quarantena nell’alveo della libertà di circolazione (art. 16 Cost.) anziché di quella personale (art. 13 Cost.) era l’unica via d’uscita, in termini pratici, per legittimare una misura attraverso la sola riserva di legge, escludendo la riserva giurisdizione.
L’onere motivazionale per la Corte Costituzionale non sarà di poco conto, posto che fisiologicamente la quarantena consiste nella reclusione fisica in uno spazio delimitato per un tempo determinato, quindi anche il divieto di circolazione, ma non solo.
Si pensi al divieto di incontrare persone, all’impossibilità di uscire anche per necessità personali, al divieto di recarsi ovunque e, perciò, di disporre del proprio corpo nel tempo e nello spazio.
Siamo naturalisticamente innanzi ad un fenomeno che limita grandemente la libertà personale dei cittadini, al pari degli arresti domiciliari (come peraltro segnalato dal Tribunale di Reggio Calabria rimettente), non importando la ragione sanitaria, di sicurezza o di giustizia per la quale la misura viene imposta.
Tutte le condizioni che limitano la libertà personale sono imposte dal Giudice, in via preventiva o successiva (convalida), esattamente come avviene nei casi di arresto in flagranza o nelle procedure di espulsione dello straniero collocato nel centro di prima accoglienza ed, in generale, per le reclusioni, le misure di sicurezza, l’esecuzione penale, la detenzione domiciliare, la semidetenzione, etc. etc.
Come accaduto in questi ultimi due anni la Corte Costituzionale, dopo un primo periodo di quiescenza, con l’ingresso ed il rimpasto dei propri componenti, ha iniziato ad intervenire sempre più frequentemente sulla legislazione pandemica con provvedimenti fortemente orientati alla difesa delle scelte della politica sanitaria del governo, anche in deroga alla Costituzione, arrivando ad annullare in via cautelare (procedimento rarissimamente, se non mai, utilizzato dalla Consulta) una Legge di una Regione a Statuto Speciale (provvedimento normativo superiore alla legge ordinaria) perché in contrasto con un DPCM (provvedimento amministrativo inferiore alla legge ordinaria), oppure avallare la pratica della usurpazione del potere legislativo da parte di quello esecutivo, ad impedire ai parlamentari l’esercizio della funzione e del voto se non in possesso di una certificazione amministrativa, ed ora a salvare la pratica di una misura gravemente incidente sulla libertà delle persone che avrebbe richiesto, come richiede, l’intervento di un giudice per la sua irrogazione.
Ovviamente tutti comprendono come sarebbe impossibile, allo stato dell’organizzazione del sistema giudiziario, procedere in tal senso ed, allora, la misura si mantiene comunque con un artifizio interpretativo del massimo organo giudiziario che, seguendo chissà quale fine percorso argomentativo, finisce con l’affermare che la quarantena attiene a tutt’altro rispetto alla libertà delle persone.
Riserviamo perciò ogni ulteriore commento all’esito del deposito delle motivazioni, limitandoci in questa sede ad analizzare il tema della quarantena e delle sanzioni penali previste per la sua violazione nell’ambito della normativa pandemica ed in base ai principi generali dell’ordinamento costituzionale e penale.
Il nuovo reato previsto dall’art. 13 comma 2bis decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87, come introdotto dall’art. 11 del decreto-legge 24 marzo 2022 n. 24, è nato orfano del nome, e non solo.
Nessuna rubrica reca la fattispecie incriminatrice che, inserita nell’art. 13 disciplinante le “sanzioni”, al comma 2bis introduce un “nuovo” reato di tipo contravvenzionale punito ai sensi dell’art. 260 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 per la violazione della misura di cui all’articolo 10-ter, comma 1, decreto-legge 22 aprile 2021, n. 52, anch’esso introdotto dal D.L. 24/22 (art. 4)
Dunque il rinvio all’art 260 RD 1265/34 è meramente quod penam, mentre la condotta sanzionata è costituita dalla violazione dell’art. 10ter DL 52/21, intitolato “isolamento e autosorveglianza”, laddove impone che: “a decorrere dal 1° aprile 2022 è fatto divieto di mobilità dalla propria abitazione o dimora alle persone sottoposte alla misura dell’isolamento per provvedimento dell’autorità sanitaria in quanto risultate positive al SARS-CoV-2, fino all’accertamento della guarigione”.
La condotta da osservare, dunque, è quella descritta nell’art. 10-ter, mentre la pena per la sua violazione è quella dell’art. 260 cit., punita con l’arresto da 3 a 18 mesi congiuntamente (perciò non oblabile) all’ammenda da 500 a 5.000 euro.
Rispetto alle precedenti disposizione non c’è sostanzialmente nessuna differenza.
La nuova fattispecie dell’art. 13 co.2bis DL 52 cit. non si discosta dal precedente paradigma dell’art. 4 comma 6 DL 19/2020 come, peraltro, ripropone le medesime problematiche che hanno lasciato lettera morta la norma: la necessità di un provvedimento notificato direttamente all’interessato dall’autorità sanitaria esplicitamente individuata dalla legge, in mancanza delle quali (autorità + provvedimento), le violazioni della quarantena da parte dei positivi erano – e saranno – prive di rilevanza penale.
Una evoluzione in peius, semmai, la troviamo nell’analisi dell’evoluzione normativa emergenziale in relazione a tale tipologia di reato.
Inizialmente l’art. 3 co. 4 d.l. DL n 6/2020 puniva penalmente l’inosservanza ai provvedimenti legalmente dati in ragione dell’emergenza sanitaria con la sanzione di cui all’art. 650 c.p. salvo poi essere immediatamente depenalizzata con il successivo d.l. n. 19/2020, che la trasformava in una sanzione amministrativa a causa della sua chiara fattezza di norma penale in bianco e per non gravare eccessivamente sul sistema della giustizia penale.
In questa opera di depenalizzazione, l’unica sopravvissuta era rappresentata dalla violazione delle misure di contenimento da parte del soggetto positivo al virus, per la quale rimaneva la rilevanza penale posta, evidentemente, la presunta pericolosità per l’incolumità pubblica di condotte di questo tipo.
Si introduceva così il nuovo istituto della “quarantena” (art. 1 co. 6 d.l. 33/2020), irrogabile in forza di un provvedimento amministrativo “applicato dal sindaco quale autorità sanitaria locale” così come previsto dall’art. 2 co.2 lett. e) del DL 19/2020 modificato dalla legge di conversione 22 maggio 2020 n. 35.
L’art. 4 comma 6 del D.L 19/2020, poi, prevedeva che, “salvo che il fatto costituisca violazione dell’articolo 452 del codice penale o comunque più grave reato, la violazione della misura di cui all’articolo 1, comma 2, lettera e), è punita ai sensi dell’articolo 260 del regio decreto 27 luglio 1934 n. 1265”.
Tale disposizione, poi, è stata riprodotta nell’art. 2 co. 3 decreto legge 16 maggio 2020, n. 33, conv. l. 14 luglio 2020, n. 74 con qualche correttivo in ordine alla durata della quarantena ma soprattutto in relazione all’autorità sanitaria competente ad irrogarla che, avendo eliminato ogni riferimento al sindaco, è divenuta incerta nella sua individuazione, rendendo impossibile ritenere integrato il reato per inesistenza del suo presupposto giuridico e normativo.
Infatti gli stessi sindaci, con una nota Anci del 13 novembre 2020, hanno rifiutato l’attribuzione del compito di emanare tali provvedimenti e, ciò, sulla base del fatto che l’art. 1 co. 2 lett. e) d.l. 19/2020 sarebbe stato abrogato dall’art. 1 co. 6 D.L. 33/2020 nonché del fatto che il compito di accertare i contagi e di gestire le misure di isolamento è attribuito alle aziende sanitarie locali.
Il risultato, in termini di tenuta della norma contravvenzionale è stato il venir meno di una autorità deputata all’irrogazione, l’inesistenza di forme e di modalità predeterminate all’emanazione e notificazione dei provvedimenti di quarantena, sicchè tutte le denunce per il reato di violazione della quarantena da parte dei positivi sono state archiviate l’assenza del presupposto necessario del reato che priva la condotta di rilevanza penale.
La nuova norma dell’art. 13 co.2bis D.L. 52/21, da una semplice lettura, non è differente dalle precedenti ed è stata riprodotta con la stessa tecnica incriminatrice che ha reso la fattispecie discutibile dal punto di vista teorico e inapplicabile nella pratica.
Alla luce di quanto sopra, le conseguenze per la violazione sono di diversa natura a seconda della prospettiva in cui ci si pone.
Da un punto di vista astratto, come detto, la violazione della quarantena di cui all’attuale art. 10ter D.L. 52 cit. comporta l’addebito di una contestazione punita con la pena congiunta (quindi non oblabile) dell’arresto da 3 a 18 mesi e dell’ammenda da 500 a 5.000 euro (art. 260 RD 1265/34).
Se pensiamo alle conseguenze processuali, la violazione della “quarantena” comporta la ragionevole denuncia in stato di libertà per il reato contravvenzionale previsto dall’art. 260 RD 1265/34, ma la denuncia è solo un atto dovuto e non significa “condanna”.
Le conseguenze in tal caso sarebbero più di carattere emotivo, psicologico ed anche economico per l’impatto con la giustizia penale da parte del cittadino comune, reo di aver violato un ordine imposto da una generica “autorità sanitaria” che lo vorrebbe privare della libertà personale per un tempo determinato con modalità indefinite ed in assenza di un atto motivato dell’autorità giudiziaria.
A prescindere dalla conformità costituzionale della norma penale in bianco, generica ed indeterminata, l’accertamento della positività dovrebbe essere cosa seria, ed essere raggiunto al di là del ragionevole dubbio, tanto quanto è seria la privazione della libertà personale, per cui alcuna approssimazione può essere tollerata, mentre dovrebbe essere salvaguardata la certezza del diritto che solo una convalida da parte di un giudice può garantire.
Ed è questo il punto affrontato dalla Corte Costituzionale che nega, con la pronuncia che comunica di aver adottato, la tutela alla libertà personale, data per costituzione dalla riserva di legge e da quella di giurisdizione previste dall’art. 13 Cost. le quali, congiuntamente, costituiscono la matrice utilizzata per coniare il codice di procedura e le altre leggi di esecuzione penale, in base alle quali la seppur minima limitazione alla libertà personale degli individui – altrimenti inviolabile – può essere disposta, preventivamente o successivamente al fatto, solo da un giudice che abbia compiutamente accertato la ricorrenza delle condizioni tassativamente indicate dalla legge per procedere ad un atto tanto grave quanto necessario.
Non basta(va) dunque la legge per essere sottoposti alla quarantena o, parimenti, alla misura cautelare degli arresti domiciliari (o del carcere, o di altre misure cautelari non custodiali), ma è(era) necessario che un giudice emetta un provvedimento motivato (decreto, ordinanza o sentenza) da notificarsi all’interessato con le forme e le modalità che garantiscano la conoscenza legale e una possibilità di difesa, impugnazione o interlocuzione.
Ma anche volendo superare il “pensiero” della Corte Costituzionale – e dunque far rientrare la quarantena nella limitazione della libertà di circolazione – il reato di violazione del divieto di uscire dall’abitazione da parte del soggetto positivo presuppone l’emanazione di un provvedimento amministrativo individuale di quarantena adottato da parte dell’autorità sanitaria ben individuata e ben notificato peraltro, in mancanza del quale, l’allontanamento dal domicilio da parte del soggetto positivo non costituisce reato, mancando un presupposto della condotta.
Come non sarebbe possibile condannare una persona per l’evasione dai propri arresti domiciliari imposti con una e-mail (se non con un WhatsApp) dal cancelliere di un giudice, allo stesso modo l’attuale art 13 co.2bis DL 52/21 non potrebbe sanzionare l’allontanamento (evasione) dal luogo ove un soggetto deve rimanere chiuso per la “quarantena” comunicata telefonicamente o altro modo smart o social da un dirigente locale della sanità, con forme diverse da quelle previste per la conoscenza legale dell’atto.
In definitiva, sebbene la denuncia sia conseguenza automatica della violazione, i conseguenti procedimenti penali continueranno ad essere archiviati, non esistendo – per quanto di pubblica conoscenza – di condanne per tali violazioni.
In definitiva può senza meno giustificarsi la sanzione penale in questione, anche in seguito alla cessazione dello stato di emergenza, almeno in via teorica ed astratta.
La funzione general-preventiva assegnata dal decisore alla violazione della “quarantena” sarebbe certamente ammissibile anche al di fuori di una condizione di emergenza sanitaria, a condizione però che vengano salvaguardate le basilari garanzie alla libertà delle persone che, si ripete, è inviolabile e può essere limitata esclusivamente da una legge (riserva di legge) e in forza di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria (riserva di giurisdizione), preventiva o successiva che sia.
Se lo Stato ritiene di dover limitare un diritto inviolabile della persona dovrà necessariamente rispettare le condizioni previste dall’ordinamento per procedere alla sua limitazione, altrimenti qualsiasi norma che imponga l’arresto, la reclusione, la segregazione, l’isolamento o la quarantena non sarà in alcun modo vincolante per il singolo e la sua inosservanza non potrà essere punita.