“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.” (art. 32 Costituzione).
In questi tempi in cui persino la stampa mainstream è costretta a riconoscere gli effetti invalidanti e letali dei c.d. vaccini anti Covid-19 mi è capitato di discutere con conoscenti e colleghi che, messi davanti all’evidente casistica, pur di mantenere le proprie posizioni, sostengono la supremazia della salute collettiva rispetto a quella dell’individuo: appoggiandosi ai comunque sottostimati dati statistici, si arriva a sostenere che, a fronte dei benefici (in realtà tutti da dimostrare) dati dalla “vaccinazione” di massa, l’acclarato sacrificio di pochi vale comunque la vita e la salute di molti.
Facendo quindi leva sul mero dato numerico, la cosa apparirebbe logica ed auspicabile se inquadrata sotto la lente d’ingrandimento economica e politica, e così, facendo riecheggiare le parole pronunciate un paio di millenni fa da un tale Caifa i corifei del bene collettivo si allineano al suo pensiero: «Voi non capite nulla; e non considerate che conviene per noi che un sol uomo muoia per il popolo e non perisca tutta la nazione» (GV 11, 49-50).
Ma è davvero così? È ammissibile che anche una sola persona possa essere sacrificata per il bene della collettività?
La Corte Costituzionale che dovrà pronunciarsi a breve sulla ammissibilità degli obblighi “vaccinali” sollevata da diversi giudici civili e amministrativi, si era espressa in passato in maniera abbastanza chiara (sentenza 22 giugno 1990, n. 307 a proposito del vaccino antipolio): «Con riferimento, invece, all’ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio […] il rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria. Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico, ma non postula il sacrificio della salute di ciascuno per la tutela della salute degli altri».
Sullo stesso solco si era posta la sentenza n. 118/1996 che, sempre in merito a un danno alla salute conseguente alla vaccinazione antipolio, aveva stabilito che «… in nome del dovere di solidarietà verso gli altri è possibile che chi ha da essere sottoposto al trattamento sanitario […] sia privato della facoltà di decidere liberamente. Ma nessuno può essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri».
Senza tacere del fatto che l’art.32 Cost. definisce la salute come “diritto del cittadino” e “interesse della collettività” determinando già sul piano giuridico una distinzione che vede il cittadino titolare del più pregante diritto rispetto al mero interesse riconosciuto alla collettività, la portata degli incisi che chiudono le massime sopra citate è chiara: non è ammissibile che anche solo un cittadino possa essere sacrificato per il bene di tutti gli altri.
E tali pronunciamenti non fanno altro che rendere “diritto vivente” la chiosa finale dell’art.32 Cost., ossia quell’emendamento fortemente voluto da Aldo Moro per evitare le derive stataliste o collettiviste tipiche dei regimi totalitari di cui era stato testimone: l’insuperabile limite del rispetto della persona umana nell’ambito dei trattamenti sanitari obbligatori.
Non è quindi al dato quantitativo del numero degli effetti avversi in relazione al numero di dosi somministrate cui bisogna riferirsi per considerare costituzionalmente valida la vaccinazione obbligatoria, non essendo invece accettabile il rischio concreto di un effetto invalidante o, peggio ancora, letale anche solo per un consociato; a ragionare diversamente, ed ammettere che una singola persona possa essere danneggiata o uccisa per salvarne altre si potrebbe benissimo giustificare l’obbligatorietà dell’espianto di un rene o di altri tessuti o organi da una persona sana per curare malattie anche gravi o dal decorso fatale in cui siano incorsi altri soggetti.
Questo perché l’habeas corpus è principio etico, prima ancora che giuridico, che funge da argine alle derive tanto di una scienza medica sganciata dalle sue finalità, quanto di una prassi politica e giuridica immemore della centralità della persona.
Se il sacrificio del singolo potesse essere giustificato in vista della salvezza di una pluralità più o meno ampia di consociati, sarebbe conseguenza logica sopprimere o menomare irreversibilmente una persona i cui organi e tessuti espiantati potrebbero salvare due, tre, dieci altri soggetti in pericolo di vita: guardando al dato numerico e ad un profilo meramente utilitaristico, sul piatto della bilancia basterebbero anche due sole vite salvate dal sacrificio di una a far propendere per il conseguimento del vantaggio.
Ma così non è.
E l’art.32, secondo comma, della nostra Costituzione oltre alla giurisprudenza della Consulta sopra citata sanciscono senza alcun dubbio che il contemperamento tra salute del singolo e salute della collettività non possa basarsi su un’analisi costi/benefici di tipo quantitativo.
Basti considerare che nel nostro ordinamento è ammissibile la donazione di sangue e di midollo osseo, così come di parti di fegato, polmone, pancreas e intestino a fini di trapianto tra persone viventi, ed è altresì ammessa la donazione di un rene per le medesime finalità.
In tali casi si è in presenza di atti in cui da un lato non interviene una perdita significativa delle funzioni fisiologiche e, dall’altro, rileva la volontà del soggetto donante, non essendo ammissibile che una persona possa essere costretta (fosse anche dallo Stato) a tali pratiche le quali, in ogni caso, toccano la sfera fisica e materiale della persona umana, ossia l’integrità del suo corpo.
A fortiori, non può essere previsto alcun obbligo per pratiche che importino una sensibile deminutio delle funzioni fisiologiche e dell’integrità psicofisica del soggetto.
Orbene, inquadrando gli obblighi vaccinali anti Covid-19 nel contesto ordinamentale sopra rappresentato, appare chiaro che una pronuncia ad essi favorevole da parte della Consulta sarebbe l’ultimo chiodo sulla bara della Costituzione repubblicana, ed aprirebbe a scenari ancora più distopici e totalitari di quelli visti finora ed in cui anche i novelli Caifa, che adesso guardano la bilancia da lontano sol perché non toccati dagli effetti invalidanti della “vaccinazione”, potrebbero un domani trovarsi sul piatto “sbagliato” maledicendo, troppo tardi, l’ingiustizia di cui si sono fatti promotori.